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Gino Vecchi |
Un viaggiatore, un artista, un poeta |
Noi di Rodi |
Gino Vecchi
Noi di Rodi
Cronache dell’otto Settembre
Io la storia dell’Egeo la so così
La dichiarazione di guerra il 10 giugno 1940
trovò L’Egeo senza una vera difesa.
Le stazioni di vedetta della Regia Marina erano
tuttavia aperte ed io, il 24 novembre 1939
quando assunsi la direzione di quella di Tilo,
mi trovai già in vigore il servizio di vigilanza
continuo, benché il Regolamento sul Servizio
Semaforico della Regia Marina prevedesse la
guardia di scoperta, in tempo di pace dal
sorgere al tramonto.
Il 24 novembre 1939 non era un giorno di guerra.
Di difesa nell’isola di Tilo non se ne parlava
ancora.
I soli militari presenti nell’isola eravamo noi
della Vedetta della Regia Marina con la sede sul
monte S.Elia ed i Reali Carabinieri con la
caserma a Livadia in riva al mare.
Successivamente al mio arrivo vi fu inviata una
compagnia di fanteria ed in seguito agli ordini
del governatore De Vecchi vi s’iniziò, come in
tutto il Possedimento, una difesa che io ritengo
sufficiente.
Essa migliorò con il governatore Bastico e poi
con l’ammiraglio Campioni.
Se gli Inglesi fossero sbarcati il giorno stesso
della dichiarazione di guerra non so come
nell’isola di Rodi e nella nostra, sarebbe stato
risolto il problema della difesa e quale sarebbe
probabilmente diventata la diversa storia del
Dodecaneso.
Gli Inglesi non sbarcarono.
Il loro primo sbarco ed il loro primo attacco al
Dodecaneso l’effettuarono il 27 febbraio 1941
nell’isola di Castelrosso, la tredicesima isola
del Possedimento delle Isole Italiane dell’Egeo,
ceduta all’Italia dalla Francia con il trattato
di Sèvres nel 1923 : l’estrema tra tutte,
protesa verso il Mar di Levante, un grosso sasso
più che un’isola, di poche miglia quadrate, dove
c’erano soltanto una Stazione di Vedetta ed una
Stazione Radio della Regia Marina e la Stazione
dei Reali Carabinieri.
Questa svolgeva, oltre che il servizio di
polizia, quello interinale di Delegazione.
La Stazione Radio della Marina svolgeva oltre il
proprio servizio di Marina, per convenzione,
anche il servizio di ricezione e di trasmissione
dei telegrammi privati
e del Meteo Marina.
Contro un pugno d’uomini che erano, più che un
presidio, un segno della sovranità italiana
sbarcarono da una cannoniera inglese proveniente
da Sitia e che entrò nel porto di Castelrosso e
da un incrociatore ausiliario: un migliaio tra
indiani ed inglesi che ebbero facilmente ragione
dei militari italiani i quali, riuniti tutti
sulle alture di Paleocastro, resistettero
qualche ora eroicamente all’assedio di tutta
quella truppa da sbarco armata modernamente ed
aiutata dalle cannonate dell’indisturbata
cannoniera, ferma all’ancora.
Il 28 febbraio 1941 Castelrosso fu ripresa con
la controffensiva organizzata dall’ammiraglio
Biancheri
che vi sbarcò personalmente, guidando i
marinai italiani provenienti da Rodi.
I nostri furono accolti dal fuoco di una sola
mitragliatrice situata sul Castello magistrale.
La torpediniera italiana Lupo distrusse a
cannonate la Stazione Radio e la Delegazione del
Governo; il cacciatorpediniere Crispi del
comandante Ferruta cercò di ostacolare il
reimbarco del corpo di spedizione inglese che si
era ritirato senza combattere nel porto
francese, in un altro punto dell’isola.
La nostra aviazione apparve il mattino dello
sbarco con dei caccia che sganciarono alcune
piccole bombe.
I morti furono una decina per parte.
Tra quelli inglesi vi fu un maggiore.
Il corpo di spedizione, malgrado inseguito dai
nostri, riuscì tutto a reimbarcarsi trasportando
con sé alcuni nostri prigionieri (che
trasferirono in India) ed altri loro morti e
feriti che sbarcarono a La Canea, nell’isola di
Creta.
Restarono in mani italiane nove prigionieri
inglesi.
A Rodi furono assegnate medaglie al valore.
La popolazione locale asseriva che gli inglesi
consideravano noi italiani del Dodecaneso loro
prigionieri mantenuti dall’Italia.
Gli Inglesi non fecero altri sbarchi nelle isole
del Possedimento prima dell’8 settembre 1943.
Per mare e per aria ci furono superiori, ma
sempre furono eroicamente combattuti.
Il giorno seguente la rioccupazione dell’isola
di Castelrosso, cioè il primo marzo del 1941,
andai volontario in quell’isola per
riorganizzarvi il servizio di vedetta e
radiotelegrafico e vi rimasi come Capoposto ed
assunsi ogni funzione che la Regia Marina doveva
svolgere nell’isola.
Nel servizio radiotelegrafico fui coadiuvato dal
Capo di III Classe RT Pezzullo, per circa un
mese.
Sul luogo rimase la compagnia di fanteria che
partecipò alla rioccupazione dell’isola,
comandata dal romagnolo Sottotenente Garattoni
che fu decorato, per l’occasione, con una
medaglia di bronzo al valore.
Vi giunse successivamente una Batteria completa
del Regio Esercito e vi fu costruito, alcuni
mesi dopo, un campo per l’atterraggio delle
cicogne.
Molti colleghi ci compiangevano pensando alla
nostra sorte di “morti ancora vivi” asserendo
che la tradizione voleva che dove gli inglesi
sono stati, sarebbero ritornati; e, secondo
loro, avrebbero avuto facilmente ragione anche
di noi.
Con l’intervento della Delegazione locale per le
relative pratiche burocratiche tutti i caduti
furono definitivamente tumulati nel cimitero
dell’isola.
Al marinaio Troiano caduto durante la difesa di
Paleocastro fu concessa una medaglia di bronzo
alla memoria.
Anche i caduti inglesi furono sepolti accanto ai
nostri nella lunga fila di sepolcri di pietra
bianca.
Rilevante circostanza di questo fatto d’arme fu
la decorazione con medaglia d’argento della
cittadina egea Anastasia Arnaoutoglu, maestra
elementare della scuola del luogo prima
dell’occupazione italiana del 1923.
Dopo la annessione di Castelrosso al Dodecaneso,
non accettò di optare per il riconoscimento
della sovranità italiana.
Fu allontanata dal servizio senza pensione.
Rimase una fervente irredentista dodecanesina.
Considerò sempre gli italiani degli invasori.
Tuttavia, ella si alzò la notte dello sbarco
inglese allarmata dagli spari e vide un marinaio
della Radio ch’era in pattuglia verso Punta
Nifti, rimasto ucciso e un altro, Boscolo di
Sottomarina che gemeva ferito.
Anche tale Ghica Despina, moglie del segretario
borghese della Regia Delegazione e che fu la
prima ad udire i lamenti del marinaio, s’alzò
per andarlo a soccorrere.
Per farsi coraggio, vedendo affacciata la
maestra che abitava una casa di fronte, propose
alla vicina d’accompagnarla: “Porgiamogli aiuto”
incitò parlando in lingua greca, dalla finestra.
Uscirono con bende ed alcool.
Stavano avanzando i primi inglesi nel buio.
Visto il Boscolo a terra tra le due donne, uno
di essi alzò il fucile con l’intenzione di
finirlo con la baionetta.
La maestra, per quanto notoriamente contraria
alla nostra causa, s’erse coraggiosamente contro
il soldato inglese del quale intuì l’intenzione.
Fece scudo del proprio corpo verso il ferito,
offrendosi alla baionetta dell’altro che
inesorabilmente la voleva calare.
Egli non poteva sapere chi fosse la donna, la
quale gli gridava sul viso: “Barbaro” con
veemenza, indifferente all’arma alzata.
Né l’uno, né l’altra s’intesero con il loro
linguaggio.
Tutto fu solo un attimo.
L’inglese andò oltre con gli altri verso gli
eroi italiani che già attendevano l’assedio,
l’assalto, il combattimento.
Il Boscolo fu salvo; fu fatto prigioniero.
La maestra unì il suo nome a quello degli eroi
di quella giornata.
In Egeo c’era indiscutibilmente un gran cuore
negli uomini che lo difendevano e che su quelle
rocce infuocate d’estate e sulla terra bruciata,
vegliavano in armi per il prestigio oltremare
della Patria.
Vi si erano insediati con la sicurezza congenita
del loro valore, attenti, sobri, rassegnati.
Cantavano i loro canti di guerra scavando la
roccia per annidarvi l’arma, pensavano a casa,
scrivevano a casa.
Non odiavano a morte gl’inglesi, ma vi avrebbero
sparato contro con risolutezza se se ne fosse
presentata l’occasione, perché era un dovere.
Ogni soldato sentiva la nostalgia della Patria
come un emigrante; portava disciplinatamente in
giro per l’Egeo il fascino gagliardo della
giovinezza italica perché vi era costretto,
sognando che la guerra finisse presto.
Invece gli anni passavano molto lentamente e
diventavano somma di ansie per le famiglie che
dovevano vivere con il magro sussidio dello
Stato, per i campi abbandonati, i lavori
interrotti, il tempo perduto; e la voglia di
rivedere i cari lontani, dopo uno, due, tre anni
di camminamenti, di mulattiere, di guardia, di
pagnotte, di tenda, che il maestrale gonfiava
con un palpito azzurro, venendo dal largo come
il sussurro di conforto di un amico invisibile,
ma pur presente, nella quotidiana vita in
comune.
Tutto si poté arrangiare all’infuori della
sconfitta.
Anche se vi fossero stati mezzi di più, cannoni
di più, materiali di più, in Egeo sarebbe stato
lo stesso.
Qualunque fatto positivo o negativo, il nostro
non sarebbe stato considerato che un fatto
d’arme nel grande scacchiere bellico mondiale,
indeterminante.
Tuttavia nella minuta vita di tutti i giorni non
avemmo sempre tutto facile.
Tradussi in pratica il proverbio: “Davanti ai
muli, dietro i cannoni, e lontani dai
superiori”.
Ebbi a che fare con gli uni, gli altri e con gli
ultimi; più con questi che con i primi e mi
trovai bene solo quando indipendentemente dal
grado che essi rivestivano erano persone
intelligenti: ma moltissime furono le
mortificazioni.
Non sono nato per comandare, ma fui costretto a
farlo poiché per i miei studi e la mia anzianità
di servizio mi fu dato un grado.
Mi richiamarono il 16 aprile 1939 per esigenze
di carattere eccezionale.
In Egeo diressi le Stazioni di Vedetta della
Regia Marina di Tilo, Zambica, Monte Vigla di
Castelrosso e Monòlito.
Dal 2 gennaio 1943 dirigevo la Stazione di
Vedetta di Monòlito.
La guerra contro gli Anglo-Americani continuava
in Calabria.
Noi di Rodi
eravamo al nostro posto di combattimento come al
solito, sul fronte a mare.
Il servizio di scoperta funzionava metodico ed
attivo.
Io ero responsabile di quanto avveniva nella mia
Stazione e di quanto veniva comunicato
all’Ufficio Operazioni ed al Comando della Zona
Semaforica di Rodi.
Sapevamo che gli Alleati erano forti e
preparati.
Gli avvenimenti che in modo evidente si
svolgevano sfavorevolmente per i nostri
connazionali sul suolo metropolitano giungevano
a noi come un’eco.
Noi alla periferia, continuavamo la vigilanza
consueta, in attesa di ordini.
Uno sbarco o comunque un attacco all’isola di
Rodi, mi sembrava improbabile poiché, al tempo
dell’armistizio, Cipro e lo scacchiere del Medio
Oriente, erano soltanto presidiati dalle truppe
anglosassoni, dopo che il grosso della flotta e
delle forze terrestri era stato trasportato, con
gli ultimi convogli inglesi, in Sicilia.
Il 12 aprile annotai nel mio diario: - L’Egeo
continua a prepararsi per affrontare un
eventuale violento attacco. C’è una disciplina
diventata ferrea: guai sbagliare. Il Comando
FF.AA. è rigido in questo momento, come non lo è
stato mai. Alle 17 nessun militare può
circolare: ognuno a quell’ora dev’essere già
rientrato al proprio reparto.
Il 10 giugno il contrammiraglio Carlo Daviso di
Charvensod, comandante la Zona Militare
Marittima dell’Egeo, firmò il suo Ordine del
Giorno N° 6 sul quale era scritto quanto segue:-
Oggi è giornata celebrativa della Marina e si
compie il 3° anno di guerra. In questi tre anni
duramente combattuti su tutti i fronti ed in
particolare su quello mediterraneo la nostra
Marina con imparagonabile slancio e con tenace
silenziosa abnegazione ha strenuamente lottato
contro un nemico superiore di forza
ostacolandolo ad ogni passo, facendogli pagare
ad altissimo prezzo ogni successo. Voi sapete le
epiche lotte, le ferme attese, i sacrifici
gloriosi. Voi sapete che giammai la Marina per
avversità di fortuna conobbe timori, debolezze,
esitazioni che anzi è stata eroica e silenziosa
sempre compresa nel suo dovere, sempre uguale
nella sua anima d’acciaio. Non ci è dato sapere
quali siano i propositi dl nemico contro questo
estremo avamposto orientale che la Patria ci ha
affidato; in ogni caso non dobbiamo lasciarci
illudere da questo periodo di calma, dobbiamo
essere pronti ad affrontare qualunque attacco
con la ferma certezza nel cuore che nessuno si
avvicinerà a queste isole finché noi saremo in
piedi. Marinai! Salutiamo i camerati caduti …
Il 13 giugno era già sera quando ricevetti da
Mariegeo un cifrato che mi ordinava di fare la
massima attenzione perché: “ Si prevede un
attacco nemico nei giorni 13-14-15 contro
l’Isola … “
Iniziai da quella notte a trascorrerne
sistematicamente molte altre in bianco.
Facemmo il massimo della vigilanza.
Il pericolo di uno sbarco a Rodi era sempre
possibile.
Un’isola come una nave offre tutti i suoi punti
al mare.
Le telefonate del Comando erano numerose sia per
chiedermi dei bollettini meteorologici, sia per
avere notizie sugli avvistamenti.
Le nostre mansioni di segnalatori erano appunto
quelle d’esplorare continuamente il mare ed il
cielo con attenzione per fornire al Comando
informazioni il più possibile esatte.
Eravamo calmi ed attenti.
Avevamo soltanto due binocoli 7x50: uno Koritska
ed uno Glauco, entrambi non completamente
efficienti.
Il mare era, comunque, sempre continuamente
vigilato e sopperivamo alla deficienza degli
apparati ottici, valendoci delle nostre qualità
fisiche visive ed uditive e della lunga,
paziente preparazione professionale acquisita
durante gli anni di servizio in guerra.
Anima, occhi ed orecchie erano continuamente
pronti e vigili.
Conoscevamo bene la costa, bene la zona di mare
che dovevamo sorvegliare, abituati a distinguere
tra le creste del mare in burrasca ogni
anormalità.
E così pure nel cielo e di notte le luci
eventualmente sospette.
Ché noi, attraverso i nostri fili e le onde
hertziane eravamo uno dei tanti occhi
dell’Ufficio Operazioni della Regia Marina ed
anche dello stesso Comando FF.AA. dell’Isola, i
quali con noi, con i nostri rilevamenti, con i
nostri bollettini meteorologici, con la nostra
capacità di leggere nel mare e nel cielo
potevano rendersi conto di quello che c’era
all’esterno.
Anche alcuni reparti del Regio Esercito si
servivano di noi per avere informazioni tecniche
esatte, pur disponendo di loro osservatori di
artiglieria o di vedette di fanteria.
E’ vero che a volte si poteva tutto riassumere
con la parola “indistinto” e lasciare che
l’Ufficio Operazioni disponesse le azioni con
gli elementi in suo possesso provenienti da
altre fonti, ma, a volte, c’erano decisioni
immediate da prendere con una risolutezza serena
che impegnava tutta la propria responsabilità e
non esservi errori e conseguenze che sarebbero
state punite; comunque irreparabili.
E’ accaduto che un mio sì o un mio no fossero
stati determinanti per aprire o non aprire il
fuoco o per dare l’allarme all’Isola.
Per un avvistamento aereo, rumore, sagoma, tipo,
nazionalità, direzione, rilevamento erano
istantanei e sicuri in me; non so come
raggiungessi questa precisione poiché nessuno me
l’insegnò.
Era già dentro di me forse per la somma
interiore delle percezioni degli stessi
elementi: la pratica, l’esercizio continuato, la
fotografia visiva e poi mentale delle sagome dei
velivoli studiate e poi confrontate con gli
aerei veri, il ricordo contemporaneo dei rumori,
la memoria di ritenzione personale facile, la
mia congenita predisposizione all’orientamento.
Mi bastava una volta sola,
giunto in un posto nuovo,
guardare la bussola per prendere
rilevamenti effettivi naturali, topografici,
morfologici veri che poi diventavano patrimonio
della mia memoria per tutti i bisogni successivi
come lo sono la parola per il linguaggio e la
grafia per la lettura; e questa dote mi è
rimasta per sempre.
Rare volte ho inviato avvistamenti aereo-navali
al Comando rilevati con il grafometro, non per
presunzione di sicurezza alla quale non pensavo
nemmeno, ma perché mi veniva spontaneo e più
facile così.
L’unico elemento che poteva trarmi in inganno
era la distanza.
Sapevo la trigonometria ma la valutavo con
approssimazione ad occhio riferendomi a distanze
naturali già misurate in giornate con atmosfera
chiara e che avevo accertato sulla carta nautica
o che mi erano note.
Non poteva essere esatta poiché un rilevamento
raramente poteva ogni volta verificarsi nello
stesso momento ed in condizioni atmosferiche
identiche ad un altro.
La nebbia, la pioggia, l’umidità dell’aria erano
come una lente che si interponeva tra l’occhio e
l’oggetto avvistato con la conseguente
rifrazione.
Nei giorni di atmosfera chiara potevo inquadrare
nel binocolo aerei o navi che ad occhio nudo non
avrei avvistare e precisare quanto distassero
specialmente quando sul registro era imprudente
segnare una scoperta superiore alle venti
miglia.
Certamente l’avvistamento, in questi casi,
sarebbe caduto sotto l’attenzione di altre
vedette situate su altre isole.
Anche la quota per la stessa ragione era
difficile da definire e la segnalavo in seguito
a stima ad occhio.
A Tilo, un giorno del 1940, avvistai con il
cannocchiale, seguii per tutta la durata del suo
passaggio e segnalai al Comando della Zona
Semaforica, sagoma per sagoma, un convoglio
inglese in navigazione con rotta Sud-Ovest, ad
una trentina di miglia.
Ad occhio nudo, non mi sarei accorto del suo
passaggio.
A Monte Vigla, nel 1942, con ottime condizioni
atmosferiche, avvistai il Gaeta che m’era stato
segnalato in arrivo nel porto di Castelrosso.
Siccome il rimorchiatore era atteso, lo avvistai
oltre il limite consentito dalle normali
possibilità.
Ma la nave, invece d’introdursi nel canale tra
Castelrosso e la Turchia, passò a Sud
dell’Isola.
Non sapevo i motivi della sua missione e mi
preoccupai solo di tenerla in vista e di
seguirla.
Andò fuori vista con rotta levante, venti,
trenta miglia, verso Cipro.
Anche nel mio cannocchiale a lunga portata, di
cui dotato, in quella stazione, ormai era un
puntino appena visibile.
Mi venne il dubbio che il rimorchiatore non si
fosse accorto, passando all’esterno dell’isola,
che, dal largo, dato lo stretto canale di appena
un paio di miglia, poteva essergli sembrato un
promontorio turco, era già giunto a
destinazione.
Prima di segnalare a Rodi il fuori vista, tentai
di comunicare con la nave.
Ordinai ai marinai di servizio di approntarmi il
Faini per la trasmissione dei segnali con
l’elioscopio, rimanendo sempre con gli occhi
fissi con il cannocchiale sul bersaglio oggetto
dell’avvistamento; poi mi feci sostituire da un
segnalatore affinché la tenesse ancora in vista.
Puntai il Faini, ad occhio, sul punto che mi era
bene impresso.
Lo rinchiusi dentro il piccolo cannocchiale
dell’apparato e lo collimai con questo ed
incominciai a trasmettere con specchio a sole, a
morse: - Qui Castelrosso.
Tutto era a punto, precisissimo.
“Capiranno ? ” mi chiedevo con una certa
preoccupazione.
Continuai a lanciare verso l’azzurro il segnale
per alcuni minuti.
“Che cosa fa ? “ chiedevo al segnalatore.
“Ha invertito rotta !” egli esclamò finalmente.
Questa vola il Gaeta trovò l’isola ed il canale
ed entrò in porto per la sua missione.
Ricotta, il segnalatore di bordo, inviato dal
suo comandante, venne a ringraziarmi in Vedetta,
come se li avessi salvati.
Per gli avvistamenti, dal comando di Rodi, non
ebbi mai rilievi in nessuna stazione da me
diretta.
Spesso consumai gli occhi per cercare navi di
cui Mariegeo voleva notizie senza che le vedessi
passare, perché, evidentemente, avevano seguito
altre rotte.
Notte e giorno; più notti e più giorni, senza
chiudere occhio, inchiodato al cannocchiale o al
binocolo per essere certo di quello che dovevo
riferire; e fumavo moltissime sigarette.
Una notte l’ammiraglio Biancheri, di ritorno da
Lero sulla torpediniera Lyra, ci fece chiamare,
a Tilo, con il Donath di bordo e ci diede un
messaggio.
La nave era invisibile, i segnali per la
lontananza, erano evanescenti e tenui come
lucciole, anch’esse dondolanti sui flutti.
Gli risposi con il Faini, mentre il carburo e
l’oxilite friggevano nelle borse di gomma per
fornirmi i gas per la fiamma acetilenica.
In caso di mancata risposta non so come sarebbe
andata a finire.
Egli era indubbiamente un intelligente e
valoroso uomo di mare.
Gli inglesi lo temevano.
La nostra Marina, durante la sua permanenza a
Rodi s’identificò spesso con il suo nome.
Gli aneddoti che si raccontavano di lui erano
molti: lo conoscevamo tutti ed era popolare
anche tra la popolazione civile.
Io lo consideravo semplicemente un superiore
difficile e cercavo di stare alla larga, il più
possibile.
Una volta il Governatore De Vecchi, prima
dell’inizio della guerra, era in giro per le
isole per ispezionarle.
Venne anche a Piscopi, dove allora, mi trovavo.
Da Rodi, via radio, mi fu ordinato di trovarmi
sulla banchina della Baia di Livadia, con i
marinai, senza specificazione dell’ora in cui
egli sarebbe arrivato.
Mi misi in collegamento ottico con l’elioscopio,
con la vedetta di Capo Foca, nell’isola di Coo,
pregando il collega di darmi notizie del Legnano
quando fosse passato al suo traverso, per
sapermi regolare sull’ora in cui mi sarei dovuto
trovare a Livadia.
O perché il collega era impegnato con
segnalazioni con la nave stessa o per altri
servizi per cui non poteva distrarsi, data la
circostanza, non ricevetti l’informazione
desiderata.
La nave apparve all’improvviso all’uscita
meridionale del Canale di Coo, con la prua
diretta verso di noi.
Appena i miei segnalatori di guardia mi
comunicarono l’avvistamento, vestii in fretta
l’uniforme ed altrettanto ordinai ai marinai non
in servizio di scoperta.
Lasciai nella Stazione soltanto il marinaio di
vedetta ed il radiotelegrafista.
Incominciammo a scendere.
L’isola di Piscopi è una delle maggiori del
Dodecaneso.
La stazione era sulla vetta del Monte Profeta
Elia, nel Comune di Tilo e distava undici
chilometri, per la via più breve, dalla Baia di
Livadia.
A scendere si fa presto, ma credo che quella
volta precipitassi.
Percorsi tutta la strada di corsa: ero giovane,
atletico, ottimo camminatore.
I marinai rimasero disseminati per la montagna
ed avevano ragione, poiché c’era caldo e non
potevano volare; e non avevano alcuna colpa se
non potevano arrivare in tempo.
Non mi preoccupavo per il Governatore, perché
era una persona distante da me, ma per il mio
ammiraglio che l’accompagnava.
Il Legnano stava già dando fondo all’ancora nel
centro della baia e da bordo stavano calando le
scialuppe.
Il maresciallo Sciacca ed i carabinieri che
avevano la caserma sul posto erano già pronti
per ricevere le autorità.
I maestri elementari davano gli ultimi consigli
ai bambini della scuola locale allineati come è
rituale, con una bandierina tricolore in mano.
Sapevo che i marinai avrebbero ritardato
parecchio.
Intanto il Governatore, l’ammiraglio Biancheri
ed altri ufficiali scesero a terra.
I carabinieri scattarono per il saluto militare.
Il Governatore si intrattenne con gli scolari.
L’ammiraglio venne decisamente verso di me
ch’ero solo sulla banchina.
In tutto eravamo una decina di persone, oltre
gli scolari e tutte quelle autorità ed
eccellenze mi parvero uno spreco.
- “ Sei
solo ! “ mi chiese l’ammiraglio che forse si
aspettava una bella riga di marinai che nelle
riviste fanno sempre una bella figura; infatti
io gliela avrei voluta preparare come
l’aspettava
- “ Dove sono i marinai ? “
- “ Ora arrivano. “
Bonariamente cominciò a chiedermi notizie sulla
Stazione e sul servizio.
Risposi alle sue domande.
- “ Come fai ad inamidarti il colletto, su
questi monti ? “
- “ Li avevo da Rodi; ne ho degli altri. “
Intanto cominciò ad arrivare qualche marinaio
con il berretto in mano; ognuno all’avvicinarsi
e nell’accorgersi che la visita era già
iniziata, cercava alla meglio di riordinarsi.
Ad intervalli giunsero tutti.
Ci allineammo proprio mentre il Governatore,
dopo aver lasciato i fanciulli, aver parlato con
il maresciallo dei Carabinieri e con i dirigenti
municipali, accennava ad avvicinarsi a me.
Mi strinse la mano, chiese qualche notizia ai
marinai e si allontanò verso l’imbarcazione per
ritornare a bordo con il suo seguito.
Rimasi nella baia finché il Legnano non fu
ripartita per Rodi e poi ritornai su, tra i
silenzi rupestri della mia stazione, sotto un
sole infuocato.
Il 21 maggio del 1940 avrei dovuto presentarmi a
Roma per sostenere gli esami orali di un
concorso presso il Ministero dell’Africa che
riguardava un posto che ambivo nella vita civile
ed avevo inoltrato domanda, molto tempo prima,
stando nella Vedetta di Pianosa, per
parteciparvi.
Avevo già superato gli scritti brillantemente.
La comunicazione del Ministero mi giunse in
ritardo in seguito ai movimenti che mi fecero
fare successivamente.
Mi trovavo a Tilo.
Da Rodi non c’era in quel momento nessun mezzo
navale utile, in partenza per l’Italia.
Per viaggiare con l’aereo ai militari occorreva
il permesso del proprio comandante.
Il comandante Pirgaia mi accompagnò nell’ufficio
dell’ammiraglio, al piano superiore del palazzo
dei Barnabiti, diventato sede del Comando Marina
e gli spiegò il caso.
Possedevo il denaro per pagarmi il viaggio.
-
“ So che un giovane studioso e ti meriti una
licenza “ iniziò l’ammiraglio.
Questa l’avevo già ottenuta dal mio comandante a
Tilo; mi aveva fatto temporaneamente sostituire
dal collega Rossi.
L’ammiraglio mi fece alcune domande sulla
materia e sugli esami.
-
“ In questo momento ho bisogno di bravi ragazzi
come te e non posso lasciarti partire “ –
concluse.
Fece scrivere al Ministero dell’Africa Italiana
una lettera che firmò personalmente, chiedendo
che fosse tenuto presente il momento di guerra
in cui ci trovavamo e la mia accurata
preparazione di cui si era accertato, per
l’eventuale nomina d’ufficio nell’incarico cui
aspiravo: - “ Il Vecchi, alle dipendenze di
questo Comando Militare Marittimo, si è
dimostrato ottimo elemento, serio, educato. Egli
si era accuratamente preparato per sostenere gli
esami in argomento. “
Di fronte ad un ammiraglio, non fui capace di
replicare come avrei voluto.
All’alba del 4 settembre 1940 dalla Stazione
Vedetta di Zambica fui il primo a segnalare
l’allarme del primo attacco aereo all’isola di
Rodi.
La città fu bombardata.
Si alzò la caccia.
Passava un convoglio inglese al largo dell’isola
di Caso.
Il bombardamento aveva lo scopo di stornare la
nostra attenzione.
Vi andarono anche i Mas.
Il bombardamento, perché fu il primo, destò
molta impressione.
L’ammiraglio telegrafò la notizia in Italia
sintetizzando: - “ Si raccolgono schegge “ e la
frase conosciuta restò per lungo tempo
espressione, in gergo tra noi, per indicare un
bombardamento.
Per renderci più aggressivi verso gl’Inglesi,
fece stampare dei cartelli con scritto in rosso
“ Odiare gli Inglesi “.
Dovevano essere affissi dovunque.
Ne fu inviato uno anche a me; mi trovavo allora
a Castelrosso.
Lo feci incollare sull’armadio del mio ufficio
per non avere rimproveri, in caso fosse venuto
in ispezione.
Le conseguenze del colpo di stato di Badoglio si
estesero anche a Rodi.
Noi potemmo seguire soltanto parte degli
avvenimenti controllati dalla radio.
Il maresciallo dei Carabinieri Grasselli che
possedeva l’unica radio esistente in paese, non
ci permetteva d’ascoltare Radio Londra.
Le notizie saltuarie
che apprendevamo da Radio Roma e da Radio
Atene non ci davano un chiaro panorama di quanto
era avvenuto in Italia.
Oltre a noi militari, in paese, non c’era alcun
cittadino italiano metropolitano, poiché il
podestà era un indigeno con la nostra
cittadinanza.
Ci trovammo di fronte al fatto compiuto e fummo
tutti d’accordo di continuare a compiere il
nostro servizio come prima.
Sebbene con tante truppe gl’Italiani a Rodi
fossero in grande numero, non si verificarono
disordini.
Il Governatore dell’Isola, come potemmo poi
leggere nel giornale e nelle circolari , aderì
immediatamente alle disposizioni di Badoglio.
I civili conservarono il loro posto.
Le Camicie Nere sostituirono i littori con le
stellette.
La sede della Federazione diventò la nuova sede
del Municipio della città.
I fasci littori furono tolti dagli edifici
immediatamente.
Notai che Marco Colonna che dirigeva “ Il
Messaggero di Rodi “ non firmava più articoli
sul giornale.
Il signor Narich, un rodioto che sfollò con la
famiglia a Monòlito, mi raccontò che l’ex
federale Cerruti doveva essere rimpatriato quasi
subito dopo lo scioglimento del partito.
Era stato messo perciò in nota per un aereo
dell’Ala Italia.
Non so per quale motivo Egeomil, che
predisponeva queste pratiche, all’ultimo momento
comunicò all’agente De Casa che la partenza
dell’ex federale era stata rimandata ad un aereo
successivo.
Non mi stupì che alla notizia dell’esclusione
dall’aereo dell’indomani, l’ex federale
obbiettasse all’agente:
“ Ora
che non sono più federale … “ esternando il suo
disappunto.
L’agente ebbe a fargli garbate scuse per
dimostrare che il contrattempo non era da
attribuire a lui.
Il Cerruti non partì.
L’aereo l’indomani decollò e scoppiò in volo
poco lontano dal campo di Marizza.
Tutti, equipaggio e passeggeri morirono.
La commissione d’inchiesta pare che accertasse
trattarsi di ritorno di fiamma al motore che era
già in condizioni di vetustà.
Avuta la notizia, l’ex federale andò da De Casa
a ringraziarlo.
Partì poi con un altro aereo.
Un fatto che dimostra la tranquillità dell’Egeo
dopo il cambiamento di governo fu quello
dell’apertura regolare della caccia avvenuta il
15 agosto.
Fu rilasciato il permesso a tutti coloro che ne
fecero richiesta.
Con l’ordine del giorno Nr. 9 in data 26 luglio
1943, in un articolo unico l’ammiraglio
comandante la Zona Militare Marittima dell’Egeo
diramò quanto segue: “ S.M. il Re/Imperatore ha
assunto il Comando di tutte le truppe operanti
ed ha nominato un governo militare sotto la
presidenza del Maresciallo Badoglio. Il nostro
compito non è quello di discutere e commentare;
è quello di obbedire in silenzio, fedeli al
giuramento prestato al nostro sovrano. In questo
momento grave per la Patria, tutti i
risentimenti personali, gli spiriti di parte, le
simpatie e le antipatie debbono tacere: per voi
tutti gli Italiani devono essere fratelli uniti
nell’amore al Paese e nella decisione
inflessibile di seguitare a combattere per
l’Italia secondo l’ordine di S.M.
Qualunque sfogo di sentimenti personali
contro persone od istituzioni sarebbe
antipatriottico, ingeneroso ed inopportuno e
sarà punito con la severità richiesta.
W il Re ! “
Ricevemmo in seguito copie di telegrammi del
nuovo ministro della Marina, la copia del
proclama di Badoglio ed ordini che avviavano il
nostro servizio sulla nuova strada.
Con una lettera del 31° Caposettore di Rodi,
firmata dal comandante Monterisi ricevemmo
l’ordine di togliere dagli uffici il quadro di
Mussolini.
Nessuno tra noi commentò e discusse.
La popolazione di Monòlito fu sempre tranquilla
e non dimostrò mai di esserci contro.
Una volta eseguendo l’ispezione al faro
ausiliario che avevo in consegna riscontrai
spostata la saracinesca della finestra da cui
usciva il fascio di luce.
Informai il maresciallo dei Carabinieri ed il
podestà.
Questi si prese l’incarico di fare bandire,
poiché a Monòlito si usava ancora rendere
pubbliche le disposizioni governatoriali e
municipali a mezzo di banditore o strillone, che
il faro si trovava in zona militare.
Non accaddero altri incidenti.
Se si fosse trattato di sabotatori avrebbero
invece fatto saltare il faro.
Quando gli Alleati occuparono la Sicilia, molti
si specialmente coloro che erano del luogo e
videro tagliata ogni comunicazione con la
famiglia.
Ascoltammo l’annuncio dell’occupazione di
Messina.
Nei giorni che seguirono gli aerei alleati non
diedero tregua ai nostri mezzi navali che
facevano la spola tra il Pireo e Rodi.
Apprendemmo questo con le notizie giunte da
marinaio a marinaio.
Il piroscafo sul quale era imbarcato l’ex
segretario della Zona Semaforica, capo
Casavecchia, fu colpito.
I gazzolini erano mitragliati ed affondati.
Chi doveva andare in licenza o rimpatriare
rifletteva, prima di mettersi in mare.
Sottufficiali in nota per gli esami di
promozione a Sottotenente del CREM rinunciarono
alla loro ulteriore carriera per non raggiungere
la sede delle prove, per non affrontare il
rischio della traversata su mezzi navali.
Altri rinunciarono alla licenza di un mese che
negli ultimi mesi veniva concessa.
Coloro invece che riuscivano a raggiungere il
Pireo proseguivano con le tradotte militari fino
a Tarvisio con le linee ferroviarie,
ripristinate alla meglio, della Grecia e della
Jugoslavia: le tradotte venivano spesso
attaccate dai ribelli.
Il viaggio via terra durava circa una settimana
e ad esso venivano aggiunti due giorni nei campi
di disinfestazione.
Il mio collega Campregher riuscì a giungere in
Italia e l’armistizio lo trovò fortunatamente in
licenza a Calceranica tra i suoi cari.
Poco tempo dopo avrei dovuto seguirlo anch’io e
certamente anche la mia sorte sarebbe stata
diversa.
Sarei dovuto rientrare definitivamente in Patria
e dopo un mese di licenza avere una destinazione
in Italia.
O perché non misurassi adeguatamente i pericoli
del viaggio o perché il desiderio di riunirmi
alla mia famiglia e di rivedere il mio reggiano
dopo oltre cinque anni di servizio ininterrotto
in Egeo era più forte di ogni paura e di ogni
calcolo, avevo deciso di accettare la
sostituzione ed il rimpatrio.
Per questo contavo ormai di partire da un
momento all’altro.
Fin dall’8 agosto 1943 l’Ufficio
Telecomunicazioni di Rodi, con firma del
Comandante Monterisi aveva emesso il seguente
telegramma indirizzato al Semaforo S. Stefano
che era l’Ufficio amministrativo del 31
Caposettore Semaforico, alla S.V. Tristoma ed
alla S.V. Monòlito:
“ Nr. 184508. Dispongo seguenti movimenti
da effettuare con primo mezzo alt. 2° Capo
Segnalatore Salvino Giovanni alla S.V. Tristoma
sostituzione parigrado Gilli Renato che dopo
consegne sia avviato S.V. Monòlito sostituzione
Capo Segnalatore 3a Classe TS Vecchi
Gino che dopo consegne sia avviato Rodi per
ulteriore rimpatrio alt. Comunicate variazioni
“.
L’otto settembre, giorno della Natività di M.V.
facemmo festa e concessi ai marinai liberi dal
servizio d’andare in franchigia.
I giorni festivi, nei luoghi come Monòlito, sono
uguali a quelli feriali, specialmente per noi
occidentali che non vi troviamo il segno esterno
della tradizione.
Il servizio di guardia non poteva essere
toccato; non c’era la chiesa cattolica per
ascoltarvi la Messa: forse per gli altri c’erano
dei ricordi, ma specialmente in me, non tali da
indurmi alla malinconia.
Vi ero abituato.
La popolazione locale, dedita alla pastorizia ed
ai lavori agricoli, era sparsa sui monti; pur
era ortodossa e non era festa per i monolitini i
quali seguono a preferenza il calendario
giuliano.
Qualche nuvola era apparsa nel cielo come il
segnale dell’inizio dell’autunno.
In Vedetta, dove andai per ispezione durante la
guardia del cannoniere Candelieri e del marò
Cracchiolo prima di mezzogiorno, soffiava una
brezza tesa di maestrale e c’era una scoperta
chiara con l’orizzonte libero. |
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